La violenza psicologica è un’azione, o meglio un ripetersi di azioni, che colpiscono in maniera consapevole il cervello di una persona, provocando una reazione variabile, ma a partire da un primo effetto comune: il superamento della capacità di difesa immediata e la produzione quindi di una cosiddetta “ferita”. Cosa siano concretamente le violenze lo sappiamo o possiamo immaginarlo tutti, anche perché sono temi di attualità, che la società sta cercando di ripensare e sistemare, come il bullismo, la discriminazione, l’odio per determinate categorie, l’intimidazione e emarginazione sistematica sui luoghi di lavoro (mobbing). Lo sono anche fenomeni ristretti a coppie di soggetti, come le molestie assillanti (stalking) o la violenza privata fino alla segregazione, alla riduzione in schiavitù. Lo sono anche, in maniera automatica per legge, ma con un senso anche biologico, tutte quelle forme di coinvolgimento strumentale di minori o di persone con fragilità mentali in rapporti da cui un adulto non fragile trae un piacere personale o un guadagno sbilanciato su di sé, anche se il minore è apparentemente consenziente. In altre parole, quelle situazioni in cui si è usati o sfruttati in condizioni di inferiorità o di sudditanza, anche senza che sia messa in atto una esplicita minaccia. Approfondiamo l’argomento con il Dott. Matteo Pacini, medico chirurgo, Specialista in Psichiatria e docente di Medicina delle Dipendenze presso l’università di Pisa.

Dott. Matteo Pacini

Quel che va rimarcato di tutte queste circostanze è che la “ferita” psicologica è innanzitutto una ferita biologica, di carne così come lo sarebbe una bruciatura sulla pelle. Si tratta certamente di ferite funzionali, ma ciò significa che, seppur microscopicamente (a livello di sinapsi, organi cellulari e molecole) la nostra struttura cambia, e magari rimane modificata in maniera quasi irreversibile. Il cervello esperto conosce una serie di situazioni di aggressione, e ha elaborato metodi per evitarle, gestirle e respingerle. Esistono però situazioni in cui queste difese sono abbassate, e la reazione non può essere efficace (riuscire ad evitare un danno a sé) ed efficiente (farlo senza stancarsi). Ad esempio, ci si chiede spesso perché le persone si facciano manipolare da truffatori, o si facciano chiaramente raggirare e prendere in giro da persone che amano, senza quasi opporre resistenza, anzi prestandosi alle richieste quasi fossero contenti di aiutare gli altri a far loro del male. In questo non incide molto il ceto sociale o il titolo di studio, ma entrano in ballo debolezze legate al carattere o al momento della vita. La classica truffa all’anziano che vive da solo operata da ladri che con qualche scusa gli si introducono in casa (finti operai del gas, poliziotti, o finti venditori) riesce principalmente perché l’anziano che vive da solo si trova in una condizione di fragilità, tale per cui istintivamente è costretto e spinto a fidarsi per necessità, specie se la persona è invadente o perentoria nei toni. In altre parole, la minaccia o l’ansia generata da false notizie, avvertimenti su pagamenti in sospeso o altro genera un’ansia che chi è debole gestisce, istintivamente, acconsentendo a quello che lo si spinge a fare, per timore di reagire. Lo stesso fa chi per natura è molto timido. Ma se il timido è giovane e forte, già questo gli può consentire, in ultimo, di riprendere terreno e difendersi prima che il danno sia fatto. Le persone possono poi essere rese vulnerabili da condizioni mentali particolari, anche temporanee, che le inducono a “voler” credere alla bontà o alla fondatezza di proposte altrui, anche chiaramente truffaldine. Si pensi ad esempio a quanti familiari di persone scomparse cedono ai cosiddetti “sensitivi” che li guidano alla ricerca di presunte tracce dei loro cari, soltanto perché vogliono avere una speranza da coltivare. Lo stesso accade a quei soggetti che, per l’ansia di possibili conseguenze sulla salute e sulla loro vita intera, si prestano a farsi usare sessualmente da maghi, guaritori, e medici che operano scorrettamente.

Queste sono porte che chi pratica violenza trova già aperte, deve soltanto spalancarle del tutto. Ci sono poi anche tecniche per creare questi varchi, utilizzando i comuni meccanismi dell’abbassamento delle difese, ad esempio l’innamoramento. Il fenomeno delle truffe affettive è basato su una ben precisa tecnica di sollecitazione dei meccanismi dell’innamoramento, tramite la costruzione di un sistema chiuso di aspettativa e appagamento svincolati dalla realtà, in cui le persone si innamorano e ricevono conferme da un’entità costruitasi all’interno della loro testa, in termini biologici e quindi psicologici. Questi “innamorati” parassiti fatti di sinapsi, molecole e microcircuiti di neuroni sono poi telecomandati da chi interloquisce con le vittime via chat, messaggi, telefono. Curiosamente, quando ormai l’innamorato virtuale si è costruito dentro il cervello della vittima, questa non dà più valore ai riscontri reali, non ne ha più bisogno immediato. Quando comincia a dubitare, scatta un meccanismo che protegge “l’innamorato virtuale”: non si verifica per non far cadere la costruzione amorosa interiore. Perfino dopo aver scoperto le truffe, essersi economicamente rovinati, e averne parlato pubblicamente, queste vittime ancora vorrebbero comunque conoscere l’identità del loro innamorato virtuale, magari accontentandosi anche di conoscere il truffatore. E non è escluso che giocando su questo, il truffatore si faccia perdonare e riesca a riaprire un nuovo ciclo di truffa.

Come anticipato da questo esempio, le conseguenze delle violenze psicologiche sono anche persistenti (forse permanenti) e corrispondono a dei nuovi assetti cerebrali, che dovrebbero costituire la risposta alle violenze. Per alcuni questo significa assumere atteggiamenti di auto-svalutazione (se ci si considera un niente, le violenze sono giustificate e quindi accettabili, addirittura si ritiene di averle provocate per propria colpa). Per altri significa divenire violenti a propria volta, come in una continua reazione tardiva contro tutto e tutti, in questo caso perché mettendosi nei panni del violento, la violenza subita diventa accettabile (ne diventiamo moralmente complici). Per altri ancora significa sviluppare un disturbo post-traumatico in cui si rivive la violenza subita come fosse sempre attuale, e si hanno reazioni verso persone e situazioni di tipo fobico o aggressivo.

Stupirà forse qualcuno, ma il fatto che una persona reagisca ad una violenza divenendo depressa e introversa, oppure aggressiva e impulsiva, dipende da un fattore genetico. Il senso della reazione quindi non va “interpretato”, è semplicemente una modalità più veloce e più comoda. La violenza esterna richiama quindi un adattamento violento, nel senso che la scelta di adattamento si consuma rapidamente e va a parare su un semplice rinforzo. Il cervello ha modi diversi di adattarsi a seconda che l’adattamento debba essere “violento” o possa svolgersi per gradi. Nella violenza psicologica non si raggiunge mai di solito il livello del meccanismo estremo, quello delle violenze che mettono in pericolo di vita o di integrità fisica, ma ci sono casi subdoli. Ad esempio, prendiamo il caso di un soggetto che sia costretto, all’interno di una setta, a compiere pratiche che lo espongono a rischi concreti di vita, o a sofferenze corporee con danni permanenti. Anche nel contesto del mobbing, ci possono essere casi in cui la persona è costretta ad accettare mansioni a rischio e contesti pericolosi nella consapevolezza che non riceverà aiuto e protezione dai colleghi come dovrebbe, il che equivale ad un’effettiva situazione di rischio inevitabile.

È inoltre tipico, nel meccanismo della violenza psicologica, che da una parte vi sia la minaccia di un danno (ad esempio essere lasciati da una persona di cui si è innamorati) e dall’altra vi sia un danno come strumento per scongiurare il primo danno (accettare di essere maltrattati per mantenere formalmente la relazione). Se razionalmente si accetta questo assetto, il cervello si ritrova in una condizione in cui non può opporre resistenza ad uno dei due danni, avendo le mani legate su un altro fronte.

In sintesi, la violenza psicologica va valutata per l’effettivo danno che produce sull’organo bersaglio, il cervello, e individuando il meccanismo che ha prodotto un abbassamento delle difese, se già non era basse in natura come nei minori o nei soggetti fisicamente inferiori. Un’azione violenta costringe ad una reazione violenta, che al di là dell’effettiva efficacia può nel cervello costituire una forzatura, specie se ripetuta, che condizionerà il suo funzionamento negli anni a venire, come in un vero e proprio “danno biologico”.

Silvia Trevaini

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Written by Paola Olivieri